Orizzontescuola.it – 17/04/2018 – Se il dirigente ti causa stress, si chiama “straining”. Una forma attenuata di mobbing (di Avv. Marco Barone)
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La Corte di Appello di Brescia rigettava l’appello proposto dal MIUR avverso la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva parzialmente accolto il ricorso di D.S.M. e condannato il Ministero al risarcimento del danno cagionato alla dipendente, quantificato in complessivi Euro 15.329,08.
La Corte territoriale, premesso che la D.S.(iniziali della docente), dichiarata inidonea all’insegnamento, era stata assegnata alla segreteria della scuola (…), ha evidenziato che era sorta tensione con la dirigenza scolastica allorquando l’appellata aveva rappresentato che occorreva ulteriore personale per l’espletamento dei servizi amministrativi.
Alle rimostranze della D.S. il dirigente scolastico aveva:
- reagito sottraendole gli strumenti di lavoro;
- attribuendole mansioni didattiche, sia pure in compresenza con altri docenti, nonostante l’accertata inidoneità; privandola, infine, di ogni mansione e lasciandola totalmente inattiva.
La Corte territoriale, richiamando le conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio disposta dal Tribunale, ha evidenziato che la condotta, seppure non propriamente mobbizzante, integrava un’ipotesi di straining, ossia di stress forzato deliberatamente inflitto alla vittima dal superiore gerarchico con un obiettivo discriminatorio.
La Corte territoriale ha ritenuto provato il nesso causale fra le condotte denunciate ed il danno biologico di natura temporanea ed ha condiviso la liquidazione effettuata dal Tribunale sulla base delle indicazioni fornite dal consulente tecnico d’ufficio.
La causa giunge in Cassazione Civile, Sez. Lav.,che con provvedimento del 19 febbraio 2018, n. 3977 così si pronuncia respingendo il ricorso del MIUR: “ i motivi di ricorso, che per la loro stretta connessione logico-giuridica possono essere unitariamente trattati, sono infondati per le ragioni già esposte da questa Corte con la sentenza n. 3291 del 19 febbraio 2016, pronunciata in fattispecie non dissimile da quella oggetto di causa; (…) si è, quindi, evidenziato che non integra violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. l’avere utilizzato “la nozione medico-legale dello straining anziché quella del mobbing” perché lo straining altro non è se non ” una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie..” azioni che, peraltro, ove si rivelino produttive di danno all’integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull’art. 2087 cod. civ.; al principio di diritto enunciato il Collegio intende dare continuità perché dell’art. 2087 cod. civ. questa Corte ha da tempo fornito un’interpretazione estensiva, costituzionalmente orientata al rispetto di beni essenziali e primari quali sono il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona, tutelati dagli artt. 32, 41 e 2 Cost.; l’ambito di applicazione della norma è stato, quindi, ritenuto non circoscritto al solo campo della prevenzione antinfortunistica in senso stretto, perché si è evidenziato che l’obbligo posto a carico del datore di lavoro di tutelare l’integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore gli impone non solo di astenersi da ogni condotta che sia finalizzata a ledere detti beni, ma anche di impedire che nell’ambiente di lavoro si possano verificare situazioni idonee a mettere in pericolo la salute e la dignità della persona; la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. sorge, pertanto, ogniqualvolta l’evento dannoso sia eziologicamente riconducibile ad un comportamento colposo, ossia o all’inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali imposti o al mancato rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede, che devono costantemente essere osservati anche nell’esercizio dei diritti; a detti principi di diritto si è correttamente attenuta la Corte territoriale che ha ritenuto sussistente la responsabilità del Ministero in quanto la D.S. era stata oggetto di azioni ostili, puntualmente allegate e provate nel giudizio di primo grado, consistite nella privazione ingiustificata degli strumenti di lavoro, nell’assegnazione di mansioni non compatibili con il suo stato di salute ed infine nella riduzione in una condizione umiliante di totale inoperosità).”